Happening Unscripted

«Unscripted: I programmi senza sceneggiatura. Sono i cosiddetti contenuti “unscripted”: reality, giochi e talent da tv tradizionale, che stanno diventando sempre più importanti anche per lo streaming. Da ormai quasi un decennio, quando un servizio di streaming vuole guadagnare mercato e nuovi spettatori punta anzitutto su una grande serie tv. Successe per la prima volta nel 2013, quando per farsi conoscere e far capire cosa ambiva a diventare Netflix investì molto su House of Cards, ingaggiando un grande attore hollywoodiano come Kevin Spacey. […] E continua a succedere, come mostrano gli investimenti e l’attesa per la serie Amazon su Il Signore degli Anelli. Negli ultimi anni, tuttavia, chi si occupa di streaming si è accorto che se è vero che certe serie fanno conquistare nuovi abbonati, tra una serie e l’altra servono anche contenuti di altro tipo, per molti versi simili a quelli della televisione tradizionale. Sono i cosiddetti contenuti unscripted, cioè quelli senza una vera e propria sceneggiatura che degli attori devono recitare. I contenuti unscripted possono essere tante cose, dal reality al documentario, dai quiz ai talent, dal talk show alla “tv della gente”. Dai programmi di cucina ai documentari di musica basati sulle interviste, dalle competizioni di drag queen alle Cucine da incubo, tra gli addetti ai lavori non tutti sono d’accordo su dove mettere esattamente i confini tra cosa è o non è unscripted […]. Come ha osservato Bloomberg: “nel tentativo di trattenere abbonati volubili e impazienti, i servizi di streaming sono in competizione per quello che si considerava essere un caposaldo della vecchia televisione, col fine di accaparrarsi varie forme di contenuti unscripted”»1.

L’articolo apparso sul Il Post mette a fuoco la natura di questi contenuti che occupano gran parte dei palinsesti della TV e ora delle piattaforme di steeaming. Si tratta di contenuti che nascono in qualche misura come autogenerati, senza una componente “autoriale” forte, con una cornice narrativa debole e un’altissima componente performativa. È un aspetto diffuso della cultura della rete e si ritrova in modo pulviscolare nei social, in cui gli utenti praticano quotidianamente una forma elementare ma non per questo meno interessante di reality show.

Il reality show fa la sua comparsa nella televisione all’inizio degli anni Novanta, si consolida come format, cioè come linguaggio, nel decennio successivo ma ha la sua origine altrove. Il format televisivo del reality è stato creato da John de Mol: «è un olandese che ha costruito una società creativa, la Endemol. […] de Mol ha al suo attivo idee come The Bus, format televisivo incentrato sulla convivenza, a cui però deve aggiungersi il nomadismo e la sopravvivenza. […] Chains of Love, un esperimento basato sul senso non metaforico del “legame”. […] Infine Big Brother: per quest’ultimo, de Mol sostiene di essersi ispirato al progetto scientifico Biosphere, un esperimento americano teso a ricercare in un ambiente chiuso le condizioni di sopravvivenza di un gruppo umano. […] Big Brother focalizza l’attenzione sulle dinamiche umane, considerando come “ambiente” un gruppo ristretto di persone, cinque uomini e cinque donne. […] Il dibattito che Grande Fratello ha scatenato, in bene ma soprattutto in male, dipende dalla sua estetica. Proprio come occorre dire che il grande merito della Body Art non è consistito tanto in un recupero del corpo, ma nel “mediarne la verità tramite il video”, si può sostenere che Grande Fratello è principalmente una performance mediale: per chi sta “dentro”, in quanto tenuto a sperimentare un sistema di relazioni umane; per chi guarda da “fuori”, in quanto non può fare a meno di reagire a questa relazione»2

La performance, come genere artistico e più in generale come linguaggio, è nata negli anni Sessanta diventando un medium diffuso e transmediale nel decennio successivo, ma al di là dei dati storici è innegabile che la performance sia diventata un potente generatore di forme estetiche che poi, dal campo ristretto dell’arte d’avanguardia, si sono travasate (più o meno consapevolmente) nella vita quotidiana di milioni di persone: una piccola danza su Tik tok, un selfie, una challenge sono a tutti gli effetti delle performance, condividono cioè con la pratica artistica “classica” medesimi contenuti formali e identici obiettivi comunicativi. Il fatto più interessante è che le azioni dei milioni di utenti messe in pratica quotidianamente sui social, proprio come una performance di Vico Acconci o Marina Abramovich, non hanno come contenuto l’azione stessa ma il mediarne la verità tramite il video.

Per quanto concerne i contenuti unscripted delle televisioni e delle piattaforme e che sono, di fatto, il modello dei social network, si potrebbe definirli meglio utilizzando i parametri dell’happening, performace di gruppo formalizzata negli anni Sessanta da Allan Kaprow. Allievo di John Cage, influenzato dalle forme derivate dall’interazione casuale di elementi diversi e dalle pratiche aperte di matrice orientale del maestro, Kaprow interpreta e formalizza teoricamente la pratica dell’happening. Partendo dall’estetica cumulativa e vitalista degli assemblaggi New-Dada compie quel passaggio che dall’environment, la costruzione di ambienti e installazioni immersive (che hanno, come sappiamo, il loro modello nel Merzbau di Schwitters) porta all’happening, – letteralmente “accadimenti” – la costruzione di situazioni in cui l’arte coincide con l’esperienza che si compie, portando alle estreme conseguenze l’idea di fusione tra arte e vita. L’happening è una pratica in bilico tra teatro e performance in cui, in una cornice debole, con una bassa possibilità di controllo da parte dell’autore, il pubblico diventa parte attiva, protagonista senza copione di situazioni spesso stravaganti che sovvertono i rapporti sociali e le logiche dei comportamenti. Nell’happening c’è quindi una sorta di “messa in scena” che funziona come una cornice che stacca i suoi partecipanti dalla normalità, calandoli in situazioni imprevedibili e indefinite; così accade anche in un reality show e in ogni contenuto unscripted – una stanza chiusa a chiave, un’isola deserta, una cucina, ma anche una diretta su un social o un flash-mob in un museo – in cui, come diceva John Cage, “succede quello che deve succedere”.

Performance e happening sono quindi diventate pratiche diffuse a livello globale, nota Valentina Tanni: «Come accaduto prima per altre forme d’arte quali la fotografia e il video, anche la performance art oggi è una pratica espressiva definitivamente liberata, che cresce e muta in mano alle persone, al di fuori del mondo dell’arte, trasformandosi in un vero linguaggio. Performance selvagge del genere sono indagini pratiche sull’esistenza: esperimenti sul corpo, sulla durata, sull’identità, sul significato della comunità, sulla condizione umana. Non si tratta, nella maggioranza dei casi, di riflessioni di genere filosofico o linguistico, come accade nell’arte concettuale, quanto piuttosto di un rituale collettivo che si sviluppa attraverso la partecipazione diretta»3. Per concludere, possiamo chiosare dicendo che questo “rituale collettivo che si sviluppa attraverso la partecipazione diretta” – che è molto spesso ripetizione, emulazione: cioè copia e incolla, cioè prelievo e processo – è una forma di filosofia pratica e di creazione, per quanto inconsapevole, di una soggettività selvaggia e vitale.

[N]

1 www.ilpost.it/2022/03/13/programmi-senza-sceneggiatura-unscripted/

2 Marco Senaldi, Enjoy! Il godimento estetico. Meltemi, Roma, 2003-2006. p. 235-236.

3 Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte. Nero, Roma, 2021. pp. 166-167

Lascia un commento