Semiofori

Cos’è una collezione? Secondo la definizione del dizionario una collezione è una «Ordinata raccolta di oggetti, omogenei, preziosi o variamente interessanti. Dal latino collectionem, derivato di colligere “raccogliere” (legere) insieme (cum)». Questa definizione chiarisce solo in parte la differenza di una collezione da una qualsiasi altra raccolta di oggetti, che siano esposti in un negozio o ammassati in una discarica. Krzysztof Pomian articola con più precisione questa differenza definendo collezione: «ogni insieme di oggetti naturali o artificiali, mantenuti temporaneamente o definitivamente fuori dal circuito delle attività economiche, soggetti a una protezione speciale in un luogo chiuso sistemato a tale scopo, ed esposti allo sguardo del pubblico»1.

Sono dunque tre le caratteristiche messe in evidenza da Pomian che servono per definire come collezione una raccolta di oggetti: il fatto che questi siano stati tolti dal circuito delle attività economiche smettendo di assolvere allo scopo per il quale sono nati o sono stati prodotti: le monete di una collezione di numismatica non hanno valore di scambio e, se è possibile conferire loro un valore, questo non ha più alcuna attinenza con quello che avevano quando erano inserite nel loro contesto, hanno smesso di funzionare, proprio come le farfalle di una collezione di lepidotteri hanno smesso di volare; questi oggetti sono quindi raccolti in un luogo speciale, costruito precisamente per loro, non può esistere una collezione che non abbia un luogo, grande o piccolo – un astuccio, una mensola, un museo – dove potersi dare come forma, discorso; e, dato fondamentale, devono essere esposti allo sguardo. Lo sguardo del collezionista, da solo, non è sufficiente per trasformare una raccolta di oggetti in una collezione, ci vuole un pubblico. Una collezione ha bisogno degli sguardi delle persone, che siano gli adepti di una religione, il pubblico pagante di un museo, gli amici del collezionista; che siano presenze selezionate in base a criteri democratici o restrittivi, non cambia la necessità della loro esistenza: una collezione è, in sostanza, un discorso pubblico con cui un gruppo di persone, in base a conoscenze, credenze, necessità e sentimenti condivisi, rende visibile l’invisibile

Per spiegare il concetto di invisibile Pomian deve risalire al fondamento antropologico dell’idea di collezione e cercare di comprendere il rapporto che, sin dall’alba dei tempi, noi sapiens instauriamo con gli oggetti che ci circondano e che sono insieme un’estensione del nostro corpo e un diaframma frapposto tra noi e il disordine del mondo. In altre parole, l’animale uomo, a differenza degli animali non umani, ha dalle sue origini – e fino a oggi – avuto una naturale predisposizione alla delega tecnica, a utilizzate le cose che poteva raccogliere dal mondo trasformandole in oggetti utili, in utensili. «La storia degli artefatti – scrive Pomian – comincia circa tre milioni di anni fa. Tale è, in effetti, la data assegnata dai paleontologi agli utensili più antichi. […] L’uomo (precisando che questo temine s’applica qui a tutti i rappresentanti del genere Homo) è fin dall’origine un produttore di cose»2.

Tuttavia, ci sono degli oggetti che sembrano avere un’utilità diversa da quella legata al loro scopo specifico; questi oggetti instaurano un legame speciale tra noi e ciò che si manifesta ma non è immediatamente comprensibile, con quello che si scorge ma non si può spiegare, che si percepisce ma non si vede. Questi oggetti sono interessanti non tanto per l’uso che se ne può fare, ma per il loro significato.

«La storia delle cose, – a parlare è ancora Pomian – come quella dell’uomo si dispiega nel tempo geologico. La storia dell’interesse umano per degli oggetti che non sono delle cose, pur risalendo anch’esso a questo tempo, è tuttavia incomparabilmente più breve». I «primi sintomi delle preoccupazioni non-utilitaristiche sembrano molto antichi» e possono essere fatti risalire a circa 400-500.000 anni fa «ma restano per il momento eccezionali. […] È solo durante il riscaldamento climatico verificatosi tra i 40.000 e i 60.000 anni, che appaiono i primi frammenti di ocra rossa; ma sono ancora molto rari». Nell’ultima fase di questo periodo cominciano ad apparire negli insediamenti umani piccole raccolte di curiosità, di oggetti naturali dall’aspetto bizzarro – una conchiglia a spirale, il fossile di un mollusco o pietre dalla forma insolita. Questi oggetti non sono manufatti artistici, ma sono cose trovate che «si sono imposte all’attenzione dei nostri predecessori zoologici» in virtù della loro forma speciale, una forma che instaura un tipo di legame con il mondo che non è utilitaristico bensì «estetico». Le raccolte sono disposte negli ambienti rituali, si trovano accanto agli affreschi a Lescaux o nella grotta dell’Hyène ad Arcy-sur-Cure.

Queste raccolte di curiosità (a tutti gli effetti dei ready-made) rinvenute nelle caverne di 60.000 anni fa presentano quei tratti che Pomian segnala come necessari per definire collezione un semplice insieme di oggetti: sono cose prive di una funzione utilitaristica, quindi sottratte al circuito delle attività economiche, sono disposte in un luogo dedicato, in questo caso uno spazio rituale, e sono esposte allo sguardo, quello della tribù.

Ma a cosa serviva questa collezione di oggetti? Per rispondere a questa domanda Pomian spiega che fino al Paleolitico superiore «la vita materiale degli uomini era […] tutta chiusa nel visibile» e il rapporto con l’invisibile era mantenuto dal linguaggio o dal rito. A partire dal Paleolitico superiore l’invisibile «si trova, per così dire, proiettato nel visibile, poiché esso è ormai rappresentato all’interno stesso di questo da una categoria specifica di oggetti: dalle curiosità naturali e anche da tutto ciò che si produce di dipinto, scolpito, tagliato, impastato, ricamato, decorato… In altri termini, una divisione appare all’interno stesso del visibile. Da un lato vi sono delle cose, degli oggetti utili tali cioè che possono essere consumati o servire a procurarsi dei beni di sussistenza […] e da un lato vi sono dei semiofori, degli oggetti che non hanno utilità nel senso che ora è stato precisato ma che rappresentano l’invisibile, sono cioè dotati di un significato».

La suddivisione degli oggetti che compongono il nostro mondo in due grandi famiglie è oggi, pur nella sua evidente complicazione, ancora attiva: ci sono oggetti che teniamo accanto a noi perché utili – questi vengono usati, si logorano e consumano e devono essere sostituiti; e ci sono oggetti, i semiofori, che teniamo accanto a noi anche se non servono a niente o a nient’altro che non sia mostrarsi, che non sostituiamo anche se logorati e, anzi, che riteniamo interessati proprio perché nel loro logorio si sedimenta la nostra percezione del passato, oggetti che organizziamo in raccolte, album, mensole di ricordi, scatole di cianfrusaglie – o, in una scala maggiore, in musei. Attraverso questi oggetti costruiamo la nostra identità, definiamo il nostro rapporto con gli altri, tessiamo relazioni con l’ambiente, ci proiettiamo nel passato elaborando i nostri ricordi e il nostro senso del tempo.

La forma e il significato dei semiofori sono definiti di volta in volta dalla cultura entro la quale vengono creati – le reliquie del Santo, la corona del Re, il capolavoro dell’artista, il cimelio storico, l’esemplare naturalistico, lo strumento scientifico, il ricordo di famiglia, il souvenir di viaggio. La cultura è il metadiscorso che lega e organizza gli oggetti di una collezione, sia che questa venga allestita in funzione di un rito o dell’esibizione di un potere, sia che venga costituita per necessità di carattere scientifico, storico o estetico o per fini privati. Ma, sempre, la collezione si compone per rendere manifesto, solido, percorribile l’invisibile discorso che ci lega in quanto gruppo, tribù, nazione, famiglia e che ci certifica come individui. La collezione mette ordine nell’intollerabile disordine del mondo, oppone al caos una forma, all’indistinto un racconto. La collezione crea un mondo, un microcosmo concettualmente concluso in cui si specchia e ricompone il macrocosmo, l’universo impensabile e invisibile.

[N]

1 Pomian, Krzysztof, Collezionisti, amatori, curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo. Traduzioni di Girolamo Arnaldi, Denise Modonesi, Mariolina Romano e Davide Tortonella. Il Saggiatore, Milano, 2007. p. 18. 

2 Ivi, e a seguire, pp. 39-40.

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