Mnemosyne

Il lavoro sull’arte di Aby Warburg insiste nello scoprire forme antecedenti che emergono come fantasmi nei quadri, nelle sculture e negli affreschi degli artisti Rinascimentali: sotto le forme di una Madonna di Botticelli Warburg rintraccia la memoria di una figura etrusca; nelle sculture di Donatello scopre le maschere funerarie fiorentine medioevali e da queste risale alla scultura votiva romana. Memorie attive, dinamiche, sepolte sotto un’iconografia che allora, e spesso ancora oggi, si credeva cristallizzata.

L’attualità del pensiero di Warburg risulta immediatamente evidente osservando l’atlante Mnemosyne, la raccolta di immagini messe insieme dallo storico nella sua biblioteca con le quali dimostrava le potenzialità del suo metodo storico. Mnemosyne è composto da un’insieme 79 pannelli neri su cui sono fissate centinaia di fotografie, ogni pannello affronta un tema montando immagini diverse che lo attraversano in modo da costruire imprevedibili percossi di senso. Questo disporre immagini differenti e metterle in risonanza è un «atto interpretativo»: Warburg «disponendo, sullo schermo nero, vari riferimenti visivi organizzati o in polarità o in sequenze di dettagli-fotogrammi»1 compie un’azione ermeneutica in grado di connettere a livello profondo immagini che sono state prodotte in luoghi e tempi differenti ma anche di far emergere l’insieme di immagini preesistenti, di simboli, forme, riferimenti intessuti in ogni immagine. Questa pratica di montaggio rende visibile come gli stessi materiali che Warburg prende in oggetto sono frutto di stratificazioni e accumuli, di sopravvivenze consapevoli e reminiscenze inconsce. «Il primo modello dell’atlante Mnemosine va quindi cercato nella struttura stessa degli oggetti che interroga, che smonta e rimonta analiticamente»2, perché nessuna immagine, ci dice Warburg, può esistere senza quelle che l’hanno preceduta e seguita.

Ogni immagine si presenta allora come un insieme di elementi eterogenei che convivono nella stessa porzione di spazio e di tempo e in ogni immagine è intrinseca questa dimensione dialettica – come suggerisce Benjamin, è dialettica in posizione di arresto. Per questo, il lavoro di decifrazione si deve svolgere con un montaggio: con «un’interpretazione che non cerca di ridurre la complessità, ma di mostrarla, di esporla, di dispiegarla»3. E per poter dispiegare completamente la complessità delle immagini «Warburg aveva capito che doveva rinunciare a fissare le immagini, come un filosofo deve saper rinunciare a fissare le sue opinioni. Il pensiero è fatto di plasticità, di mobilità, di metamorfosi. Per questo Warburg si vide costretto a rinunciare persino a incollare le stampe fotografiche su tavole cartonate. […] Il semplice protocollo tecnico dei fermagli permetteva di lasciare alle immagini la loro mobilità e di non completare mai il gioco»4.

Ecco allora apparire chiaramente uno dei tratti che rende Mnemosyne una delle esperienze visive più formidabili del secolo: la capacità di Warburg di accettare la complessità della materia che manipola senza avere mai la tentazione di fissarla in una forma definitiva, in una forma che potremmo definire ottimizzata e dimostrare la necessità di mantenere la materia della propria analisi in uno stato di perenne mobilità e apertura, di caos irriducibile a ogni ordine definitivo, perché è proprio questo stato di turbolenza a stimolare la nostra facoltà di immaginare percorsi di senso sempre nuovi.

Lo stesso tipo di esperienza che ha compiuto Kurt Schwitters all’opera nel suo Merzbau, costruzione sempre in fieri, mai compiuta, mai fissata in una forma definitiva e consegnata a un perenne processo di ridefinizione e ri-pensamento.

Il desiderio di mantenere la scrittura della storia delle forme in uno stato di apertura e di instabilità è quanto di più lontano e avverso al tipo di storia che si andava scrivendo in Europa negli stessi anni, su cui le nazioni stavano fondando il mito del loro destino. «Mnemosyne – scrive Didi-Huberman – è un oggetto d’avanguardia in quanto osa decostruire l’album-souvenir storicistico delle “influenze dell’Antichità” per sostituirgli un atlante della memoria erratico, regolato dall’inconscio, saturo di immagini eterogenee, invaso di elementi anacronici o immemoriali, assillato dal quel nero degli schermi che, spesso, assume il ruolo di indicatore di spazi vuoti, di missing-links, di buchi di memoria. Essendo la memoria fatta di buchi, il nuovo ruolo attribuito da Warburg allo storico della cultura è quello di un interprete della rimozione, di un “veggente” dei buchi della memoria. Mnemosyne è un oggetto intempestivo, in quanto osa nell’età del positivismo e della storia trionfante, funzionare come un puzzle o come una partita i tarocchi sproporzionati – configurazione senza limiti, numero di carte variabile all’infinito. Le differenze non vengono mai riassorbite in qualche identità superiore: come nel mondo fluido della partecipazione, esse si animano dei loro legami, che – con sperimentazione sempre rinnovata – il cartomante di questo gioco con il tempo trova»5.

Ma la bellezza del Mnemosyne risiede anche nel suo essere un modello attivo e utile nel nostro presente: archetipo di tanti atlanti, raccolte di immagini, collezioni che percorreranno il Novecento arrivando sino a noi per rendere evidente – nell’era delle immagini interrelate da automatismi portatori di contenuti stabiliti in anticipo, dei link prodotti da algoritmi scritti per ottimizzare le nostre esperienze visive e cognitive e fissarle così a standard concepiti altrove e per scopi che non sono i nostri – che il significato di ogni immagine, o di ogni insieme di immagini deve essere cercato incessantemente, tessendo reti, disegnando analogie, mettendo in risonanza, scoprendo affinità e discrasie, accettando soprattutto di lavorare «non sul significato delle figure […] ma sui rapporti complessi che queste figure intrattengono tra di loro in un dispositivo visivo complesso, e irriducibile all’ordine del discorso»6.

[N]

1 Didi-Huberman, Georges, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte. Traduzione di Alessandro Serra. Bollati Boringhieri, Milano, 2006. p.447

2 Ivi, p.447

3 Ivi, p.455

4 Ivi, p. 423-424

5 Ivi, p.444-445

8 Elio Grazioli, La collezione come forma d’arte. Johan & Levi Editore, Milano, 2012. p 36

Lascia un commento