Decorazione antagonista

Le pratiche writing si fondano su una sostanziale dimensione ornamentale autogenerativa alla quale si unisce la dinamica antagonista: nello spazio urbano integralmente codificato dalla comunicazione ufficiale e consentita (in primo luogo pubblicitaria e pertanto normativa e unidirezionale) si libera l’energia ornamentale (gratuita, anonima e polidirezionale) che costituisce un’interferenza, o un sabotaggio, alla pianificazione dell’immaginario.

Abbiamo già notato come, all’inizio della modernità, l’ornamento abbia subito una dura scomunica perché ritenuto primitivo, degenerato e femmineo per essere quasi totalmente espunto dal nostro orizzonte visivo (quale città moderna può oggi accogliere facciate di palazzi decorate e dipinte, o un arredo urbano che non sia rigidamente funzionalista?) «ironia del destino – scrive Faletra – che vede oggi il ritorno dell’ornamentazione urbana sotto le spoglie del “vandalismo”, del “delitto”» dei graffiti. I graffiti, frutto di classi sociali subalterne, di primitive tribù urbane e «ponendosi oltre il potere simbolico istituito del linguaggio e opponendosi a qualsiasi norma estetica, sono il sintomo di un’alterità sociale irrisolta. Inoltre in questo rifiuto [della società verso i graffiti] c’è da leggere una vecchia sopravvivenza dell’idea di “buon gusto” borghese, secondo cui esisterebbero “arti primitive” o “popolari” intese come sinonimi di regressione. In questa accezione l’ornamento sarebbe indice di frivolezza, di superficialità, una pratica ritenuta per convenzione inferiore all’arte razionale».1

Insomma, cacciato dal discorso culturale all’alba della modernità perché irrazionale, primitivo, popolare, femmineo, antieconomico, disfunzionale… il decorativo torna ad affacciarsi nella nostra cultura grazie a un movimento creativo che ha trasformato quegli elementi avvertiti come dis-valori lungo tutto il Novecento in una strategia operativa. La pratica ornamentale trova nel razionale contesto urbano il luogo perfetto in cui fiorire in modo rizomatico, clandestino e antagonista, opponendo alla pulizia e all’ordine modernista la sensualità e la libertà di un immaginario non conforme e non ottimizzato. Riprendendo le parole di Buci-Glucksmann, possiamo dire che il writing, se guardato dalla prospettiva del decorativo, mostra l’emergere di quella «modernità più “intempestiva”, per non dire controcorrente, che si situa in una costellazione di tempi differenziali e rifiuta i grandi dualismi tra arte nobile e arte applicata, tra maschile e femminile, occidentale e non-occidentale, organico e artificio»2

La cultura si ritrova così a confrontarsi con una dimensione estetica, creativa ma anche politica e sociale che la mitologia razionalista e funzionalista del modernismo ha tentato di espellere o purgare lungo il corso del Novecento. Una dimensione in cui «Un gesto staccato dalla funzionalità come quello inoperoso dei graffiti, liberato dall’economia della forma estetica, vaga, erra nell’indeterminatezza non di uno spazio, ma di un non-luogo come può esserlo un muro o una superficie che esiste fuori da una cornice quale presupposto di ogni rappresentazione. Il gesto non produce informazione (messaggio), non produce neanche comprensione (segno), ma se produce qualcosa è tutto il resto, ciò che non rientra nell’uso utilitaristico, che produce uno scarto, una differenza che non si serve delle opposizioni, poiché non scambia con nessun’altra condizione, ma solo con se stesso: in altri termini il resto è autopoetico»3.

[N]

1 Marcello Faletra, Graffiti. Poetiche della rivolta. Postmediabooks, Milano, 2015. pp. 13-14

2 Christine Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento. Traduzione di Simone Verde. Sellerio, Palermo, 2010. p. 29

3 Faletra, Cit, p. 96

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