Selfie

Selfie, l’Accademia della Crusca offre questa definizione: «fotografia scattata a sé stessi, tipicamente senza l’ausilio della temporizzazione e destinata alla condivisione in rete. Il termine entra nell’uso italiano come prestito non adattato dall’inglese selfie, composto da self e dal suffisso -ie. La quasi contemporaneità con cui il termine si attesta in inglese e in italiano testimonia la grande permeabilità ai forestierismi, e in modo particolare agli anglismi, del milieu linguistico da cui selfie proviene: la lingua del web e dei social network.

Sulla rete anglofona la parola inizia infatti a circolare nei primi anni 2000. La prima apparizione lessicografica è del 2005, quando viene registrata dagli utenti di Urban Dictionary (un famoso dizionario in rete compilato dagli utenti stessi) nella grafia selfy: questo ne conferma l’utilizzo già diffuso in precedenza, in particolare sui siti e social network che allora permettevano di condividere foto (Flickr e MySpace). Presente dal 2009 in Wiktionary (altro dizionario controllato direttamente dai lettori), è stata recentemente registrata come neologismo (agosto 2013) ed eletta “parola dell’anno” dagli Oxford Dictionaries. È ragionevole ipotizzare che selfie si sia ugualmente, ma con un lieve ritardo, diffuso tra gli utenti italiani dei social network fino alla prima attestazione giornalistica in rete (su “Vanity Fair” l’8 dicembre 2012), per poi approdare alla carta stampata e agli altri mass media (radio, televisione) nel corso dell’estate 2013. […] Selfie non è un sinonimo perfetto di autoscatto, come del resto in inglese non lo è di automatic shutter release né di self-shot o self-portrait: come suggerito dagli Oxford Dictionaries Online, il termine indica una fotografia scattata a sé stessi e tipicamente senza l’ausilio della temporizzazione, con uno smartphone o una webcam, destinata a essere condivisa sui social network. Non è un caso, infatti, che la pratica del selfie abbia avuto un boom di diffusione in contemporanea con l’introduzione della telecamera frontale negli smartphone»1.

Riassumiamo, il selfie non è un autoscatto fotografico, è una pratica recente e strettamente legata ai nuovi dispositivi tecnici di produzione (smartphone con camera frontale) e al contesto di diffusione (reti sociali). Il soggetto del selfie è anche il suo produttore (e il suo promotore), malgrado le differenze con l’autoscatto tradizionale, possiamo comunque considerarlo un autoritratto? Si pone in continuità con questa pratica secolare? Forse sì, se si considera il problema guardando il singolo scatto, l’apparire puntiforme dell’immagine: c’è un soggetto che, attraverso uno strumento tecnico e un’elaborazione linguistica (pittura prima, fotografia poi), si guarda, si riconosce e nomina. Ma per circoscrivere il selfie come forma dobbiamo partire dalle circostanze, dai contesti, dalle modalità della sua produzione cioè da quello che lo identifica con più nettezza. 

Il selfie è comunemente interpretato come un esercizio di narcisismo: c’è un soggetto che si guarda e che condivide tramite le reti sociali questo suo guardarsi, è come se mostrasse il suo stesso guardarsi – un ritratto dell’autoritratto, un ritratto al quadrato. È questa la lettura che viene applicata dagli psicologi che guardano ai fenomeni sociali, è un modo per ricondurre la faccenda in una sorta di patologia collettiva che, per essere compresa e “curata”, ha bisogno, guarda caso, proprio degli psicologi! Evidentemente la pratica del selfie non può essere liquidata come un semplice esercizio di narcisismo (è anche di un esercizio di narcisismo).

Il genere dell’autoritratto ha radici profonde e complesse e il selfie può tranquillamente essere letto come un esito contemporaneo di tale tradizione. Sul tema rimando all’articolo Dall’autoritratto al selfie pubblicato su Doppiozero2 in Marco Bonini afferma come il selfie sia prima di tutto una pratica sociale, di diffusione e affermazione pubblica del sé. Un selfie viene scattato per essere condiviso sui social network, per circolare. Con il selfie si esce dallo spazio privato e ci si immerge nel mondo, Bonini nota con acume come un selfie sia, in ultima analisi, una performance.

Il termine performance, entra nel linguaggio dell’estetica negli anni Settanta e ha, come sappiamo, contorni precisi. La performance artistica nella prospettiva della neoavanguardia e anche in quella che viene praticata oggi, ha decisamente una dimensione auto-narrativa, di rappresentazione e invenzione del sé che può essere messa in risonanza e continuità con la tradizione del ritratto così come si è sviluppata in occidente a partire da Quattrocento. Su questo punto si possono costruire relazioni e nessi e intendere il selfie come uno sviluppo collettivo del ritratto, un impiego dell’autoritratto per la definizione del contorni sociali dell’io. Si può far rientrare il selfie in quel grande dispiegamento di scritture del sé che proliferano in rete: blog, facebook, instagram, canali youtube, ecc. in cui le persone si raccontano e raccontandosi si definiscono come soggetti.

La scrittura intima, diaristica è stata una parte fondamentale della costruzione del sé moderno (come i pensieri di Pascal o lo Zibaldone di Leopardi) ed è connessa a molte pratiche creative che hanno definito il nostro tempo, è importante notare che questa elaborazione è privata, solitaria e quindi – e non sempre, non necessariamente – pubblica. Al contrario, le pratiche connesse alla rappresentazione del sé in rete, sono – come fa notare Bonini – più che altro strategie di auto-promozione, operazioni per aumentare il proprio valore nell’economia dei sistemi di comunicazione, cioè pratiche di self-marketing piuttosto che processi in cui si cerca di definire il proprio sé in “auto-nomia” ed è questo il punto in cui si crea una cesura netta con la tradizione secolare dell’autoritratto: non è la dimensione auto-narrativa quella più importante ma quella auto-promozionale, il selfie non è auto-rappresentazione ma self-marketing (indicativi in questo senso i manuali per l’utilizzo del selfie in chiave economica usciti recentemente).

Questo aspetto è rilevato anche da Valentina Tanni nel libro Memestetica in cui si analizza gli esiti contemporanei della iper-produzione di immagini nella galassia internet: «Bollati da alcuni come semplici derive narcisistiche, i selfie rappresentano molto di più: la volontà di inserire se stessi nel racconto, di dare un volto alle storie di costruire e governare la propria immagine e, con essa la percezione della propria personalità. […] La scelta di “metterci la faccia” fa parte di una nuova attitudine al personal storytelling. E non è un caso che i selfie siano il tipo di scatto che raccoglie il maggior numero di like e commenti: il nostro cervello è programmato per reagire alla vista di un volto umano, la più antica (e ancora la principale) interfaccia di comunicazione»3.

[N]

1 Dizionario on-line dell’Accademia della Crusca.

2 Bonini, Dall’autoritratto al selfie. Su Doppiozero, rivista on-line

3 Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte. Nero, Roma, 2021. p. 195.

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