Sapere, immaginare

Per comprendere meglio la valenza filosofica (ma anche operativa) del montaggio, ci affidiamo a Georges Didi-Huberman. Nel libro Immagini malgrado tutto – dedicato all’analisi delle uniche quattro fotografie scattate all’interno di un campo di concentramento nazista da testimoni che non fossero carnefici ma vittime – Didi-Huberman mette a fuoco con precisione le potenzialità del montaggio come pratica ermeneutica.

Nell’estate del 1944, in un’estremo e disperato atto di opposizione all’indicibile crimine che si stava consumando, grazie alla collaborazione della resistenza polacca, alcuni membri del Sonderkommado, «la squadra speciale di detenuti che gestiva a mani nude lo sterminio di massa»1 di Auschwitz-Birkenau, riescono a introdurre una macchina fotografica nel campi di sterminio e a scattare quattro fotografie proprio dal centro di quell’abisso. Come è risaputo, esistono molte immagini dei campi di sterminio prodotte dopo la liberazione, film e foto realizzati dalle forze militari che, entrate nei Lager, ne hanno documentato la realtà; esistono anche molte immagini prodotte dai nazisti stessi e sopravvissute alla distruzione sistematica degli archivi messa in atto nei gironi confusi della disfatta – i nazisti sapevano che i crimini compiuti nei campi erano così enormi da essere impensabili, che i sopravvissuti, se mai ne fossero rimasti, non sarebbero stati creduti (come in effetti è accaduto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra) e quindi non dovevano esserci immagini a testimoniare l’impensabile, da qui la proibizione a documentare e a far circolare immagini sulla realtà delle camere a gas.

Esistono però queste quattro foto, «quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno», scattate dai detenuti ebrei costretti al più aberrante dei lavori che mostrano confusamente e irrefutabilmente dei momenti immediatamente precedenti e successivi alla gassazione vera e propria; quattro inestimabili pezzi di una verità che per noi, nati in un tempo sideralmente lontano eppure così prossimo, è impossibile concepire.

Ma «per sapere occorre immaginare». L’analisi di Didi-Hubernam parte da questo nitido assunto: per avvicinarci alla terrificante verità racchiusa in queste quattro fotografie dobbiamo immaginare, «poiché comunque dobbiamo provarci, dobbiamo confrontarci con questa cosa difficile da immaginare», è come un debito da saldare e comunque «le nostre difficoltà non sono nulla al confronto di quelle dei prigionieri che hanno sottratto ai campi questi pochi brandelli di cui noi oggi siamo depositari e il cui peso affligge i nostri sguardi»; immagini che abbiamo il compito di contemplare, di assumere «malgrado la nostra incapacità di guardarle come meriterebbero, malgrado il nostro mondo, un mondo rimpinzato, quai soffocato, da merce immaginaria»2.

Per rendere leggibili queste immagini, scrive Georges Didi-Huberman, è necessario un lavoro, tanto profondo quanto accurato e rispettoso, capace di metterle in moto, di  considerarle ancora eventi capaci di sprigionare momenti di verità, sottrarle alla fissità del documento (che è risultato visibile, informazione superficiale), e immergerle nella fenomenologia che le ha prodotte3. Solo così le quattro foto dell’agosto del 1944 possono essere momenti di verità e, «anche se non dicono tutta la verità, ovviamente (bisogna essere davvero ingenui per aspettarsi questo da cose, parole o immagini): minuscoli prelievi da una realtà così complessa, brevi istanti di un continuum che è durato cinque anni, non uno di meno»4.

Per immergere queste immagini nella fenomenologia (cioè nel processo) che le ha prodotte, per questo è necessario un montaggio: «Ma perché un montaggio? […] perché la “leggibilità” di queste immagini – dunque il loro eventuale ruolo di conoscenza del processo in questione – si può elaborare solo mettendo in rilievo la loro risonanza o dissonanza con altre fonti, altre immagini, altre testimonianze. Il valore di conoscenza non può essere intrinseco a una sola immagine, così come l’immaginazione non consiste nell’involversi passivamente in una sola immagine. Si tratta, semmai, di mettere in movimento il molteplice, di non isolare nulla, di mettere in luce gli iati e le analogie, le indeterminazioni e sovradeterminazioni all’opera»5.

L’analisi di Didi-Huberman non è solamente un delicato esercizio di filosofia dell’immagine applicato alle immagini più tremende e problematiche della storia del Novecento, è anche la dimostrazione di come soltanto con una attenta pratica di montaggio (o, detto altrimenti, di accostamento e collage) si può faticosamente ricucire e ritrovare un senso anche là dove sembra impossibile immaginarlo. Il montaggio dunque non è solo un modo per produrre nuove immagini, o sequenze di immagini, è anche e soprattutto il modo per dare un senso alle immagini, di immergerle in un momento di verità. Questo risulta tanto più necessario in un presente storico in cui le immagini cominciano a scomparire nella perfetta simulazione del reale visibile e in questo loro dissolversi rendono impossibile quella distanza (e quell’attrito) tra immagine e visibile reale che ci costringe a esercitare la nostra facoltà di immaginazione. Perché, scrive ancora Didi-Huberman «l’immaginazione non è un abbandono ai miraggi di un solo riflesso, come troppo spesso si crede, ma viceversa costruzione e montaggio di forme plurali che vengono messe in corrispondenza: ecco perché, lungi dall’essere un privilegio dell’artista o pura faccenda soggettivistica, l’immaginazione fa parte della conoscenza nel suo movimento più fecondo, benché – o perché – più arrischiato»6.

Il montaggio si presenta come una prassi, un modello operativo, ma soprattutto come uno strumento filosofico che impegna la nostra facoltà di immaginazione. Le immagini non sono mai pienamente significative di per sé ma lo diventano quando sono messe in risonanza con altre immagini o documenti o racconti. Il montaggio quindi è una prassi attraverso cui si può estrarre un senso (un’ermeneutica) e un racconto (un’esegesi) da materiali, visivi e non, che altrimenti rimarrebbero privi si senso e muti. Che questi materiali siano prodotti nel campo dell’arte, del design, che si trovino depositati nella archivi della storia o nell’album di fotografie della nostra famiglia non cambia, per comprendere (per creare e dare un senso) a ogni livello occorre immaginare, dove immaginare significa creare nessi e relazioni, costruire rapporti, rendere visibili punti di contatto o distacchi, segnalare continuità e aporie, cioè mettere in movimento i materiali di cui disponiamo attraverso un’azione di montaggio.

Il montaggio, spiega Didi-Huberman conduce a una «conoscenza delicata», una conoscenza in cui le immagini non sono messe tutte sullo stesso piano, in cui bisogna essere capaci di misurare, pesare, considerare ogni immagine in modo diverso. Il montaggio crea sbalzi, diversità, discontinuità, interrompe il discorso nel quale siamo immersi. Il montaggio è dialettico e in questo movimento dialettico produce singolarità, senso, conoscenza, novità.

[N]

1 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. Traduzione di Davide Tarizzo. Cortina, Milano, 2005. p. 16

2 Ivi, p. 15

3 Ivi, p. 57

4 Ivi, p. 58

5 Ivi, p. 153

6 Ivi, p. 153

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