Avanguardia

1 Dopo l’Impressionismo

La prima generazione di artisti che, dopo la stagione impressionista, tenta di riallacciare un rapporto diretto con la realtà sociale e politica del mondo si scontra con una distanza divenuta ormai incolmabile. Vincent Van Gogh, Edvard Munch, Paul Gauguin, James Ensor percepiscono questa lontananza come un fatto traumatico.

Van Gogh, cresciuto nel mito del realismo di metà Ottocento si trova alla fine del secolo senza alcun referente culturale: per quanto con la propria opera si sforzi di dare voce agli ultimi della terra (minatori, diseredati, carcerati) e di ritrovare un rapporto diretto e sincero con la natura, rimane un artista isolato. Questo autismo culturale diventa anche un fallimento esistenziale. Lo stesso disagio che ha condotto Van Gogh al suicidio porta Munch alla follia e trascina Ensor in un isolamento autoimposto. Gauguin cercherà con la fuga in Polinesia di ritrovare una comunità dentro la quale sentirsi ancora integrato e operante ma anche laggiù dovrà fare i conti con un inesorabile fallimento.

Un allontanamento e una perdita di ruolo vissuti in modi diversi dagli artisti attivi a cavallo tra i due secoli che si sono visti concedere, o si sono ritirati, in spazi sempre più angusti. Nascono così l’”art pour l’art” e il mito romantico dell’artista rifiutato dalla società o che rifiuta la società e fugge altrove (in una soffitta, in Polinesia, nella follia) – mito duro a morire e ancora saldamente insediato nell’immaginario collettivo1.

Dal malessere per le forme culturali dell’occidente borghese deriva l’interesse per le culture extraeuropee o per le forme artistiche minori che emerge in maniera differente nel lavoro di molti artisti e intellettuali: se Van Gogh guarda all’arte giapponese, Gauguin si trasferisce direttamente in Polinesia a cercare in una cultura lontana quegli elementi di libertà che non riesce a trovare a Parigi2. Così anche l’arte che nasce fuori dalle accademie, quella dei pittori amatoriali, naif, incolti come Henri Rousseau detto il Doganiere, assume interesse e rilievo. In sostanza, le suggestioni dei linguaggi che arrivano da lontano sembrano garantire un maggiore grado di libertà, oltre che di novità: una fascinazione per l’esotico che attraverserà in modi diversi, e a tratti contraddittori, tutto il Novecento, arrivando fino a noi3.

Dei postimpresionisti Henri de Toulouse-Lautrec è quello che percorre più da vicino la strada del realismo sociale di fine Ottocento: scene di vita moderna trattate con sincerità e chiarezza, che mantengono la profondità dell’analisi psicologica e la fedeltà al dato sensibile. Sarà, probabilmente per questo suo personale sincronismo, un precoce interprete del nuovo tipo realtà della fine del secolo XIX: la realtà del mondo delle merci4.

Paul Cézanne si apparta dentro a un discorso figurativo intellettualistico, cerebrale, autosufficiente, diventando il precursore di una generazione di artisti, i cubisti, preoccupata più dei problemi formali che dell’utilità sociale della loro opera. 

Simile nell’approccio analitico di Cézanne ma ancor più radicale nei risultati linguistici è l’opera di Georges Seurat, tutta fondata su ricerche di scomposizione del colore e di analisi ottica. Il lavoro di Seurat rappresenta il primo esempio di una lunga serie di approcci scientifici alla visione che hanno accompagnato l’arte del Novecento5.

[N]

1 Mario De Micheli descrive così la fine della stagione rivoluzionaria Ottocentesca, dopo il fallimento della comune di Parigi del 1871 che sanciva la definitiva vittoria della borghesia capitalista e l’espulsione dell’arte dalla prassi della vita e dall’impegno sociale: «Il distacco degli intellettuali migliori dalle posizioni politiche e culturali della loro classe è un distacco che li porterà per lungo tempo a vivere di una protesta fatta soprattutto di evasione. […] Il “rifiuto del mondo borghese” diventa un fatto concreto, il rifiuto della società, di un costume, di una morale, di un modo di vita. […] Fuga dalla civiltà dunque, una fuga individuale, una soluzione individuale, perché ormai non vi sono più “idee generali” […]L’esperienza di Gauguin sarà l’esperienza di molti altri artisti confusamente in cerca di un modo per vincere il progressivo impoverimento dei valori umani, dei propri valori spirituali, per salvaguardare la propria integrità minacciata da una dilacerante realtà. Quante fughe in cerca di una purezza, di una verginità, di uno stato di grazia; e quanti ritorni amari, desolati: quante sconfitte. Sulla scia di Gauguin, Kandinsky andrà nel Nord Africa; Nolde nei mari del Sud e in Giappone; Pechstein alle Isole Palau, in Cina, in India; Segall nel Brasile; Klee e Macke in Tunisia; Barlach tra i miserabili della Russia meridionale. Altri sceglieranno ancora il suicidio come soluzione Kirchner, Lehmbruck… Ma non era un tentativo di evasione nella purezza della natura anche il ritiro maremmano di Fattori? […] In questi artisti il mito del selvaggio e del primitivo fanno parte di una ricerca affannosa per ritrovare se stessi, la propria felicità, la propria natura di uomini, fuori dall’ipocrisia dalle convenzioni, dalle corruzioni». De Micheli, Le Avanguardie artistiche del Novecento. p. 52.

2 Vedi Segalen, Gauguin nel suo ultimo scenario.

3 Vedi Giuliana Altea, Il fantasma del decorativo. Il Saggiatore, Milano, 2012.

4 Vedi Elio Grazioli, Arte e pubblicità. Bruno Mondadori, Milano, 2001.

5 Vedi Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone. Einaudi, Torino, 1983.

2 Avanguardia

All’inizio del secolo Ventesimo una nuova generazioni di intellettuali, pittori, poeti, architetti si affaccia alla vita culturale, il loro problema è sempre lo sesso: produrre dei segni moderni, capaci colmare la distanza tra la sfera estetica e la prassi della vita quotidiana.

A differenza degli artisti precedenti, che hanno vissuto questa lontananza come un trauma, la nuova generazione affronta il problema non in solitudine, ma costituendo dei gruppi, riconoscendosi per il comune sentire, creando piccole comunità con un linguaggio condiviso. Tra il 1905 e il 1920 le posizioni di rifiuto, fallimento e isolamento intellettuale dei singoli artisti vanno coagulandosi in nuclei via via più strutturati ideologicamente, definiti stilisticamente e organizzati logisticamente: si allestiscono mostre al di fuori del circuito ufficiale; si organizzano eventi e rappresentazioni; si stampano riviste, opuscoli, manifesti; si intensificano i contatti e gli scambi con altri gruppi e creano reti di sostenitori, collezionisti e, di fatto, un mercato e una economia capace di sostenere le attività. Seppure partendo da diverse posizioni e agendo in contesti differenti, ogni gruppo è consapevole di essere un’avanguardia1. L’uso di un termine militare – avanguardia è la pattuglia che procede in avanscoperta per rendere agibile e sicuro il terreno al grosso della truppa – rende chiaro che l’approccio ai problemi formali, sociali e culturali non è accomodante, ma anzi bellicoso e apertamente rivoluzionario.

L’artista d’avanguardia è un esploratore, da questo atteggiamento deriva la proibizione a ripetere le forme conosciute e a percorrere strade già battute. L’ideologia dell’avanguardia trasforma in un dogma la ricerca del nuovo e produce il mito di un progresso illimitato delle forme, in cui ogni passo, ogni sperimentazione rende obsolete e inutilizzabili le precedenti. L’avanguardia, nelle sue forme novecentesche, si è prodotta attorno a questa necessità profonda di rinnovare e superare continuamente se stessa. L’avanguardia si muove in opposizione alle forme dominanti, progetta e prepara la rivoluzione sospinta dalla fiducia nel progresso, nell’emancipazione, nella libertà. L’obiettivo dell’arte d’avanguardia è quello, apertamente dichiarato, di reintrodurre l’arte nella prassi della vita. 

Gli artisti cercano una nuova collocazione e una nuova funzione all’interno della società borghese, che spesso rifiutano e combattono. Un dato interessante è che per la prima volta nella storia l’artista d’avanguardia non è tenuto più a compiacere il proprio pubblico ma piuttosto, con la propria opera, lo sfida, lo aggredisce e osteggia e infine lo giudica, in questo quadro si inserisce anche il cambiamento di ruolo del critico, che sceglie il conflitto posizionandosi accanto all’artista e da osservatore distaccato diventa militante2.

Con l’avanguardia si compie la completa immersione della pratica artistica nella dinamica del mondo delle merci: l’arte aggiorna continuamente la propria offerta e consegna al ciclo dell’obsolescenza i prodotti più vecchi. L’artista diventa quindi produttore di beni volubili e, come ogni altro produttore, deve costantemente ricreare il proprio pubblico – e con esso la domanda che assorbe la sua offerta. Così, nel mondo moderno anche l’arte capovolge il rapporto tra domanda e offerta di contenuti estetici: l’offerta non risponde a una domanda, ma la suscita. Le avanguardie storiche procedono quindi creando rottura con il passato e propongono un’idea rinnovata di arte seguendo il doppio stimolo di dover rispondere alle trasformazioni dei tempi con un’estetica capace di tornare a connettersi alla prassi della vita, ma anche di dover adeguarsi alle mutate condizioni di mercato – gallerie, collezionisti, critici professionisti, investitori pubblici e privati, speculazione e concorrenza, tanta concorrenza – e alle nuove, conseguenti, esigenze professionali. L’artista si trova costretto a offrire la propria merce, e se stesso, la propria «forza-lavoro isolata»3 in un mercato competitivo e capriccioso. Anche il susseguirsi delle tendenze, degli ismi, che dall’inizio del Novecento diventa sempre più frenetico può essere letto seguendo questo doppio binario: da un lato l’ansia di escogitare nuovi modelli espressivi e dall’altro l’esigenza di lanciare nuovi prodotti.

Nel corso dei secoli gli artisti hanno sempre lavorato all’interno delle dinamiche economiche specifiche della loro epoca confrontandosi con una qualche forma di mercato. La modernità ha imposto il passaggio dal rapporto con il committente a quello con il collezionista e trasformato gli artisti da artigiani in liberi professionisti che operano in un mercato regolato dalla concorrenza. Nella modernità, per gestire il proprio prodotto, l’artista deve quindi posizionarsi in un preciso segmento di mercato e proporre soluzioni originali e appetibili. E, poiché il mercato ha bisogno di rivoluzionare costantemente la propria offerta, anche l’artista deve conseguentemente adottare la rivoluzione come strategia.

Avanguardia e fotografia

Il cambiamento più traumatico per le arti figurative alla fine del secolo XIX è ovviamente rappresentato dall’invenzione della fotografia: dopo secoli in cui ai pittori è affidato il compito di rappresentare quanto più fedelmente possibile il mondo appare una tecnologia capace di restituire delle immagini che hanno la pretesa di essere oggettive. Se la verità del mondo può essere documentata da un’immagine generata tecnologicamente – senza un apparente intervento della personalità dell’autore – se quest’immagine ha una fedeltà, una rispondenza mai raggiunta artisticamente con il dato sensibile, quale può essere allora il compito dell’artista? La generazione di intellettuali che si pone questo problema nei primi anni del Novecento risponde che il compito dell’artista non può più essere quello di rappresentare il mondo ma quello di darne una “visione”. Tanto più questa visione è personale tanto più risulta vera, perché tende a cogliere non la pelle del mondo ma la sua vera essenza. Da questo punto si articolano tutte le esperienze dell’avanguardia che condurranno come esito ultimo all’arte astratta, un’arte che non rappresenta il mondo esteriore, bensì quello interiore4.

La fotografia all’inizio del Novecento si avviava a diventare una pratica di massa, pagava però il prezzo della sua origine meccanica con un generale rifiuto da parte di artisti e scrittori nel considerarla una nuova forma d’arte. Una scomunica pronunciata fin dal suo primo apparire: «Per massima chiarezza – scrive Claudio Marra – ricordiamo ancora una volta, velocemente, gli argomenti antifotografici utilizzati da Baudelaire nel testo “Il pubblico moderno e la fotografia” del 1859 erano sostanzialmente i seguenti a) la fotografia non è arte perché troppo realistica; b) la fotografia non è arte perché non richiede una particolare abilità di realizzazione; c) la fotografia non è arte perché troppo contaminata con l’industria (cioè con la dimensione commerciale-mercantile della vita)»5

Una scomunica ancora valida, cinquant’anni dopo, per gli artisti delle avanguardie più legate al rapporto con la forma simbolica del quadro e della scultura. Gli artisti dell’area fauve, cubista ed espressionista hanno avuto un rapporto decisamente freddo, se non ostile con l’immagine tecnica e, a parte qualche esplorazione nelle forme cinematografiche, rimarranno legati alle tecniche artistiche classiche.

[N]

1 «Secondo la metafora avanguardistica, la storia diventa un esercito e gli artisti un drappello che precede in ricognizione. Il cammino in avanti dell’arte diventa responsabilità di una élite culturale che si ritiene in grado di definire al suo interno il progresso, convinta che la storia la seguirà. È un’élite di progressisti che subentra alle precedenti élite del potere o dell’alta cultura pagando tale privilegio con il marchio dell’outsider». La fine della storia dell’arte. Hans Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte. Traduzione di Francesca Pomarici. Einaudi, Torino, 1990. pp. 11-12.

2 Boris Groys, Art Power. Traduzione di Anna Simone. Postmedia books, Milano, 2012. p. 128.

3 Christoph Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione. Traduzione di Tommaso Cavallo. Torino, Bollati Boringhieri, 2012. p. 69.

4 Vedi Dora Vallier, L’arte astratta. Traduzione di Antonello Negri. Garzanti, Milano, 1984.

5 Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre). Bruno Mondadori, Milano, 2012. 42-43.

3 Le tre avanguardie

È possibile riconoscere tre modelli d’azione nelle vicende della così detta avanguardia storica attiva grossomodo tra il 1905 e il 1930: un’opzione che potremmo dire di riforma o protesta che vede gli artisti dell’area fauvista, cubista ed espressionista tentare di riformulare i linguaggi artistici per adeguarli alle mutate contingenze storiche senza però intaccarli nei loro fondamenti; un’opzione decisamente più rivoluzionaria con movimenti quali Futurismo, Costruttivismo, Bauhaus, De Stjil e Surrealismo impegnati in una attività di rinnovamento sociale da operare attraverso l’arte che diventa pertanto uno strumento di azione politica oltre che estetica o di azione politica in quanto estetica. Entrambi questi modelli fanno leva su quell’idea di personalizzazione dei linguaggi esplorata all’inizio di questo percorso. Per questi movimenti la logica della rappresentazione (rappresentazione tramite l’espressione) attraverso il quadro-scultura rimane però fondamentalmente inalterata rispetto ai modelli dell’arte classica: l’arte continua a essere un raffinato apparato per simbolizzare le forme della vita, per operare una trasformazione lirica la realtà che rimane però lontana, mai presa in causa direttamente.

E poi c’è il Dadaismo che, come vedremo, si propone di distruggere ogni forma tradizionale di espressione artistica per sciogliere definitivamente l’arte nella vita. Dada interpreta nel modo più radicale la necessità di rinnovamento della prassi artistica che è il cuore dell’esperienza delle avanguardie, recidendo ogni legame con i precedenti modelli linguistici e producendo arte come rifiuto dell’arte.

Arte come riforma

Fauve

Henri Matisse e Pierre Bonnard danno vita nel 1905 ai Fauves (o Nabis), un gruppo che cerca, con una pittura dai forti accenti cromatici ed emotivi di ritrovare la strada per una dimensione creativa primordiale, sorgiva, autenticamente umana. Sono posizioni di insofferenza verso il presente e di fiducia nelle possibilità dell’arte di agire a un livello profondo: il risultato è una pittura immediatamente comprensibile, che non ha bisogno di elaborazioni concettuali per essere compresa da chi la osserva. In ogni caso, il dato che emerge più chiaramente nelle esperienze degli artisti attivi all’inizio del secolo è forse quello di una ricerca assidua e spesso infruttuosa di identità culturale e di funzione sociale. Lo strappo tra le forme dell’arte e la prassi della vita è ormai un fatto acquisito, un vissuto quotidiano, su questo punto ingaggeranno la loro battaglia gli artisti delle avanguardie successive.

Cubismo

La preoccupazione degli artisti cubisti (il gruppo nasce in Francia intorno al 1908) è quella di riformulare il linguaggio artistico per renderlo adatto alla cultura moderna e metropolitana: viene messo il crisi il tradizionale approccio alla rappresentazione dello spazio e del tempo; salta la gabbia prospettica che aveva dettato la misura nei secoli precedenti; i concetti di realismo e di verosimiglianza vengono sottoposti a una severa revisione e l’attività creativa abbandona il confronto diretto con il mondo e diviene una pratica squisitamente mentale. Per operare le loro rivoluzione i cubisti guardano con interesse all’arte non occidentale, in particolare alla scultura africana – frontale, totemica, antinaturalistica. È un interesse che condividono con molti intellettuali d’avanguardia: il critico Carl Einstein, ad esempio, scrive un fondamentale saggio sulla Scultura Negra1  scorgendovi proprio dei valori formali e filosofici extraoccidentali estremamente innovativi. Soprattutto, i cubisti tentano di trovare gli strumenti linguistici per dare forma a un nuovo sentimento del tempo, tentano di andare oltre l’immagine ottica per cogliere l’essenza dell’oggetto rappresentato. La ricerca cubista sposta l’idea di cos’è reale: l’apparenza delle cose o la loro sostanza?

La nuova visione del tempo e dello spazio, nata dalle trasformazioni che attraversano la società che abbiamo già descritto, e l’esigenza di adeguare le forme dell’espressione alle forme della vita investe anche le altre arti: in letteratura, a esempio, Guillame Apollinaire (amico e compagno di strada di Picasso, Braque e compagni, autore tra l’altro del primo fondamentale testo critico sul Cubismo) tenta nuovi modi per scrivere poesia. Con i suoi calligramme Apollinaire esce dalla gabbia tipografica, abbandona la metrica tradizionale come in arte si è abbandonata la prospettiva e sperimenta testi in cui la forma della scrittura coincide con il significato: la lettura diventa un’esperienza visiva, disarticolando il tempo su cui normalmente si struttura ogni lettura – da destra verso sinistra, dall’alto al basso.

L’interesse degli artisti attivi nell’area cubista per le nuove tecnologie è scarso, sono rare le esplorazioni delle possibilità che la fotografia e soprattutto il cinema mettevano loro a disposizione. L’unico esempio di un cero rilievo è rappresentato dall’esperimento di cinema cubista Ballet Mecanique di Fernand Léger del 1924, in cui si intravvedono le possibilità scompositive e ritmiche offerte dal montaggio cinematografico.

Arte come protesta. Espressionismi

L’Europa di inizio Novecento, attraversata dallo spirito positivista e dall’idea che il progresso tecnico è uno strumento per il progresso umano, deve fare i conti anche con correnti di critica e opposizione che mettono in luce i limiti e i rischi di tale processo. Queste correnti artistiche e letterarie si possono riunire sotto l’etichetta di espressionismo: «Si tratta di un largo movimento, che difficilmente si può racchiudere in una definizione o delimitare a seconda della forma in cui si manifesta, come si può fare in altri casi, per il cubismo per esempio. I modi in cui l’espressionismo si manifesta sono infatti […] abbastanza numerosi e diversi: l’unica maniera per giungere alla sua comprensione è dunque quella di partire dai suoi contenuti. […] Quello che si può dire subito è che l’espressionismo, senza alcun dubbio, è un’arte di opposizione. Il suo antipositivismo è quindi conseguentemente anti-naturalismo e anti-impressionismo»2. L’espressionismo quindi, più che un movimento artistico formalizzato, è una dimensione culturale complessa, fortemente radicata nella realtà sociale dei luoghi in cui prende forma e di cui diventa interprete e pertanto estremamente varia nei suoi esiti formali.

Espressionismo in Germania

In Germania i gruppi Die Brucke e Blaue Reiter affrontano gli stessi problemi con approcci differenti. Gli artisti Die Brucke(gruppo fondato a Dresda nel 1905)sono apertamente critici, la loro è un’attività artistica che innalza il vessillo del rifiuto, della protesta. Gli artisti di quest’area si allontanano dal realismo impressionista – di cui osteggiano l’adesione acritica al mondo borghese – e si dedicano a un’arte con la quale dare voce alla drammaticità del tempo presente e alla crisi dei valori sociali. Da questo spirito di protesta e rifiuto nasce una pittura fortemente emotiva, espressiva appunto, che abbandona la rappresentazione realistica e mostra il mondo attraverso visioni fortemente personali e soggettive. È un’arte di protesta e di azione sociale, apertamente antiborghese: sono gli anni in cui il capitalismo industriale nel suo abbraccio con il potere dello stato sta gettando le basi di quella politica nazionalista, militarista e imperialista che porterà allo scoppio della Prima guerra mondiale. In ogni caso, in quest’area culturale, quello che conta è far emergere l’emotività profonda, instaurare un rapporto non mediato ma diretto e conflittuale con il mondo. Da questo approccio deriva l’adozione di una tavolozza fatta di colori primari stesi in grandi campiture, la predilezione per le linee spezzate, le prospettive distorte e il recupero di un lessico che richiama apertamente l’arte tedesca medievale, pre-rinascimentale e pre-moderna. Gli artisti espressionisti cercano nel passato gli elementi linguistici per opporsi al presente capitalista; il passato, in questo caso, rappresenta una forma di altrove che esercita la stessa funzione filosofica e formale della scultura africana per i cubisti, della Polinesia per Guaguin, della pittura ingenua per il Doganiere.

Gli artisti del Blaue Raiter cercano invece un’arte che possa liberare gli individui dalle gabbie imposte dal capitalismo, rimettendoli in contatto con quella dimensione spirituale e trascendente annichilita dalla economia borghese. Kandinsky, Klee, Marc pongono il problema del prezzo che la modernità tecnoscientifica chiede di pagare agli individui: la rinuncia alla vita interiore per un’esistenza dominata dalla tirannia delle cose e delle merci. Rivolgono quindi l’attenzione all’interiorità, cercando di stimolare la nascita di una nuova trascendenza. Il punto di arrivo di questo viaggio è l’abbandono della rappresentazione del mondo sensibile e l’approdo all’astrattismo, un sistema di segni che non rappresenta le cose ma le emozioni suscitate dalle cose.

La prima Guerra Mondiale consuma l’Europa come nessun altro conflitto ha fatto in precedenza. Scrivono Revelli e Ortoleva: «La guerra si mostrò così, fin dal primo anno, in tutti i suoi caratteri di novità, prodotti dalle nuove condizioni economiche e sociali maturate negli ultimi decenni: fu una guerra industriale, in cui la capacità di mobilitazione produttiva s’intrecciava a tal punto con le vicende militari da determinarle in modo decisivo; e fu una guerra tecnologica, in cui l’uso delle più moderne innovazioni della tecnica assunse un ruolo tanto massiccio da rendere inefficace ogni vecchia strategia. Si trattò dunque di una guerra a tutti gli effetti moderna e di massa, in quanto prodotto di una società in via di massificazione, ed ebbe le dimensioni di un massacro»3.

Dopo la Grande Guerra, in una Germania che esce dal conflitto distrutta nei suoi fondamenti economici, sociali e politici, il primo Espressionismo si scinde: da una parte la lezione critica, di violenta opposizione della Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit) e dall’altra l’azione riformatrice, positivista e socialista, del Bauhaus. Per gli artisti della Nuova Oggettività la necessità di produrre immagini capaci di fare i conti con le devastazioni della guerra, rovinosamente persa da una Germania che si sentiva invincibile e destinata a guidare le sorti del continente, diventa ancora più stringente. Dix, Grosz, Kollwitz diventano gli interpreti di quell’umanità spezzata dalla guerra e gli accusatori di quel ceto, borghese e capitalista, che ha trascinato la nazione nel conflitto e saputo trarre vantaggio da esso.

«È difficile comprendere il significato culturale di questa corrente e i suoi caratteri […] se non si riesce a comprendere la vicenda di un gran numero di intellettuali tedeschi dentro la guerra e negli anni immediatamente seguenti. L’esperienza di morte e di miseria, insieme con lo spettacolo di ipocrisia patriottica del borghese; l’ostentazione della ricchezza e la boria dei generali; il disordine della sconfitta e il crollo di una società nella vergogna; tutto ciò non era accaduto invano. Quello che oscuramente alcuni espressionisti avevano intuito si era tramutato in una realtà ancora più tragica e paurosa»4.

Nell’area espressionista si forma e appare chiaramente il tipo di intellettuale militante e anti sistema che sarà una costante di tutto il secolo. La letteratura, l’arte, il cinema ecc. si caricano così di una responsabilità etica e la preoccupazione principale diventa quella di “dire la verità”, sul mondo e sulle sue reali condizioni, dando voce a coloro che non possono parlare, smentendo le versioni ufficiali, svelando le menzogne della propaganda, l’ipocrisia del senso comune. I risultati formali, squisitamente estetici sono il risultato ma soprattutto lo strumento di questa presa di posizione e assunzione di responsabilità.

Viani e gli anarchici italiani

Anche in Italia è attiva una corrente che si può riferire nell’area espressionista di cui il maggiore esponente è il pittore (e romanziere) Lorenzo Viani: anticericale e anarchico nella sua opera si possono rintracciare tutti quegli elementi di critica e insofferenza tipici dell’espressionismo. In quest’area si possono anche collocare artisti “borderline” come Amedeo Modigliani, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Mario Sironi. Dopo la Grande Guerra l’insofferenza di alcuni di questi artisti verso il presente fu intercettata dal movimentismo fascista. Una volta al potere il fascismo, come ogni regime, divenne assai meno tollerante verso lo spirito di protesta degli intellettuali e coloro che non furono assimilati, come Sironi a esempio, si trovarono a dover scontare una posizione di marginalità.

Arte come rivoluzione

Alle correnti che si possono variamente raggruppare sotto l’ombrello dell’espressionismo, in cui la modernità, se non apertamente osteggiata, è interpretata in modo critico, si possono opporre correnti in cui, al contrario, il tempo presente viene accolto con spirito positivo. Come in ogni epoca le trasformazioni sociali, economiche e politiche rappresentano un problema ma anche un’opportunità. La rivoluzione moderna è vista da molti intellettuali come l’occasione per uscire dall’arretratezza, per conquistare spazi di democrazia, per emancipare le masse e costruire una società più giusta. Sono posizioni che viaggiano sull’onda lunga degli ideali illuministi secondo cui i progressi della tecnica e del sapere rappresentano anche la possibilità di un progresso sociale e umano.

In ogni caso, nelle arti c’è la coscienza delle poderose trasformazioni sociali in atto e la conseguente necessità di adeguare i modelli espressivi e comunicativi. Come abbiamo visto, dopo l’avvento della fotografia, le arti figurative prendono atto delle mutate condizioni storiche e abbandonano la secolare ambizione di rappresentare la realtà inseguendo la fedeltà al dato sensibile.

Futurismo

All’inizio del Novecento l’Italia si affaccia faticosamente alla modernità: un’industrializzazione incompleta e balbettante si fa largo attraverso una situazione economica, politica e culturale arretrata rispetto al resto d’Europa. I futuristi colgono queste tensioni progressiste e cercano di diventarne interpreti e promotori e, forse per mettersi al passo con i tempi, Marinetti e compagni puntano tutto sull’idea di velocità.

Il loro intento è di operare una rivoluzione nella pratica artistica e nell’ordine sociale, all’inizio dell’avventura sono antiborghesi, anarcoidi, insofferenti verso il potere, la religione, le convenzioni sociali e culturali; sono attaccabrighe, cercano lo scandalo e lo scontro; sognano la distruzione della tradizione, dei musei, delle accademie e di tutti quei vincoli storici che tengono il paese incatenato al passato. 

Velocità, mito della macchina e dell’azione, tensione verso il futuro sono gli stimoli per una revisione completa dei modelli e delle pratiche espressive: per gli artisti futuristi l’arte deve dare voce alla società moderna, metropolitana e industriale, e proiettarsi nell’avvenire.

Pittura, architettura, poesia, musica, teatro ma anche design, moda, gastronomia, galateo5: ogni campo della pratica artistica e della vita è investito da un’ondata iconoclasta e rivoluzionaria. Secondo i futuristi l’arte deve trasformare ogni aspetto della vita, deve essere vita. L’architettura si confronta con il nuovo panorama industriale, la poesia si libera della metrica e la musica si mescola al nuovo paesaggio sonoro fatto di rumori meccanici e clamore6.

Malgrado le posizioni ideologiche espresse negli incandescenti manifesti programmatici l’arte figurativa dei futuristi non ha rappresentato quell’estrema rivoluzione prospettata nella teoria: la pittura e la scultura futuriste subiscono torsioni e disarticolazioni, le forme esplodono nella rappresentazione del movimento, rimanendo saldamente ancorate alla logica classica del quadro-scultura. L’inclusione di materiali differenti nello spazio simbolico del quadro non avviene come non avviene il vagheggiato abbandono (di Boccioni in particolare) delle tecniche tradizionali. In altre parole, il movimento rimane rappresentato e quindi simbolizzato e quel salto così desiderato dell’arte nella vita non avviene.

I risultanti più interessanti ottenuti dai futuristi sono realizzati nel campo delle arti applicare, del design e della tipografia, cioè il campo dove la creatività opera direttamente e fattivamente nel campo della vita pratica. Soprattutto in quest’ultimo caso l’esplosione della gabbia tipografica, l’uso smaliziato dei processi di stampa e una libertà espressiva davvero nuova per quell’epoca hanno prodotto pagine estremamente innovative e seminali. Le parole in libertà rappresentano nel design grafico proprio quel salto mancato nelle arti maggiori. La letteratura e la poesia dovevano adeguarsi alla velocità del mondo delle macchine, per esprimere il sentire futurista era quindi necessaria una trasformazione radicale anche della pagina tipografica. Simultaneità nella lettura di più testi, impiego di onomatopee e di elementi grafici, distruzione delle gerarchie e della sintassi sono gli strumenti impiegati per operare questa rivoluzione: «Fu dunque una riflessione sul testo – scrivono Baroni e Vitta –, non quella sulla sua rappresentazione tipografica, a indurre i futuristi a scardinare lo spazio della pagina per farne la scena della nuova comunicazione»7.

I futuristi sono interventisti, partecipano alla propaganda per l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, dopo la guerra sosterranno la politica nazionalista e squadrista del nascente partito Fascista. Con Mussolini al potere il Futurismo perderà tutta la sua carica movimentista e si annacquerà in posizioni gradite al regime.

Le innovazioni formali del primo Futurismo – normalmente chiamato eroico, proprio per distinguerlo da quello postbellico, allineato al regime, che di eroico aveva poco – fioriranno, grazie all’opera di Fortunato Depero, nel campo della comunicazione8. La pubblicità e la grafica saranno quel campo in cui le forme dinamiche, i colori pieni e squillati, la forte iconicità e libertà della composizione potranno sprigionare tutta la loro energia. L’opera di Depero dimostra come le sperimentazioni, che potremmo definire pure, nel campo dell’arte che gli artisti delle avanguardie compiono, rinnovano il glossario dell’arte stessa e insieme del visivo in generale, ampliando le possibilità non solo dei creativi – che sono più liberi di sperimentare – ma, con la forza della provocazione, anche quello che il pubblico può recepire.

De Stijl e Bauhaus

De Stijl in Olanda e Bauhaus in Germania hanno approcci simili al fare artistico, come simili sono anche le soluzioni formali che propongono. Ancora una volta, la preoccupazione di questo gruppo di intellettuali è quella di sanare la frattura tra arte e prassi della vita quotidiana, un problema che viene affrontato con solido pragmatismo e fiducioso idealismo. Walter Gropius fonda nel 1919, sulle rovine di una Germania uscita sconfitta e umiliata dalla guerra, una scuola, convinto che l’arte sia, come la scienza, trasmissibile e applicabile socialmente.

Una moderna produzione artistica può fornire, secondo gli artisti-insegnati del Bauhaus, validi elementi per una riformulazione attiva del rapporto tra arte e vita, oltre che partecipare al processo di ricostruzione materiale, culturale e morale della nazione. Le posizioni di Gropius e dei suoi colleghi differiscono molto da quelle di rifiuto e critica assunte dagli artisti dell’area espressionista: per chi insegna e lavora nel Bauhaus il problema è piuttosto quello di trasformare la vita attraverso l’arte. La creatività diventa quindi un potente motore di progresso e un veicolo di rivoluzione sociale9.

Una moderna produzione artistica si deve rivolgere a un nuovo tipo di individuo che vive consapevolmente e pienamente il proprio tempo: razionale, progressista e insieme capace di liberare le proprie profonde risorse interiori, ancora inespresse. Mondrian e Kandinsky cercano appunto delle immagini capaci dialogare con la dimensione interiore dell’uomo moderno. La pittura abbandona quindi il realismo e cerca forme pure, astratte, che colgono l’essenza delle cose. I quadri degli artisti attivi in quest’area sono impregnati di ideali filosofici e spirituali, e rappresentano il lato trascendente e utopista del movimento moderno. La produzione artistica classica (pittura, scultura e architettura) è accompagnata da una rivoluzionaria attività nel campo delle arti applicate, del design industriale e grafico, con apporti decisivi nel cinema, nel teatro e nella musica.

Mondrian e Van Doesburg adottano un alfabeto rigoroso e geometrico, da cui è espunta ogni componente emotiva, naturalistica e ornamentale: è un modo per superare l’imperante gusto tardo Liberty, barocco, fiorito e drammaticamente compiaciuto. Anche Kandinsky intraprende il cammino verso un’arte rigorosa e controllata, e le sue composizioni apparentemente così libere e immediate sono il frutto di studi approfonditi sulla dinamica delle forme e sull’impatto emotivo dei colori. Kandinsky accompagna alla sua opera pittorica una intensa attività teorica (come del resto facevano tutti gli artisti di quegli anni, Malevic, Mondrian, Schwitters, Klee hanno lasciato poderosi corpus di scritti)10.

La produzione degli artisti di De Stijl, e più ancora quella di coloro che partecipano all’esperienza del Bauhaus, è contrassegnata da una grande pulizia concettuale; le forme sono rigorose, ridotte a elementi essenziali; i colori sono sempre primari e mai emotivi; l’approccio alla creazione è razionale, guidato dall’applicazione di modelli desunti dal metodo scientifico e da una forte dose di fiducia nella forza positiva del progresso. Si mette così a punto quell’alfabeto misurato, minimale e concreto che ha segnato tutto il movimento moderno.

L’esperienza del Bauhaus ha aperto prospettive straordinarie proprio nelle arti applicate (le “belle arti industriali” secondo la definizione di Maurizio Vitta11) diventando di fatto l’incubatore di una nuova cultura del progetto. Il design, insomma comincia a produrre una propria estetica ricavata dalle sue stesse ragioni progettuali, economiche e comunicative, più che desumere il proprio senso dalle arti maggiori (come era stato per il Futurismo, ad esempio, in cui negli oggetti venivano declinate forme e contenuti prodotti nel campo delle arti maggiori). L’esperienza del Bauhaus finisce nel 1933 con la presa del potere di Hitler: il regime totalitario non poteva tollerare al suo interno un’esperienza a suo modo totalizzante come quella promossa da Gropius.

Tra gli anni Venti e Trenta l’Europa compie la sua trasformazione in una società di massa12, strutturata attorno a modelli economici, comportamenti e riferimenti culturali sempre più standardizzati e uniformati. I linguaggi della comunicazione e della grafica – come quelli dell’arte – cercano un vocabolario adeguato alle mutate condizioni sociali. Le innovazioni sperimentate dagli artisti di avanguardia introducono elementi formali, teorici e poetici che serviranno a un più generale rinnovamento e progresso nel campo delle arti applicate. Sintetizzando si può dire che le sperimentazioni degli artisti forniranno un nuovo lessico ai professionisti che nella loro pratica compiranno il salto tra l’enunciazione di principi e l’individuazione sistematica di un linguaggio in sé concluso, saldando, almeno in parte, la frattura tra esperienza estetica e prassi della vita quotidiana.

Costruttivismo

La ventata di modernismo è ancora più forte nella Russia della rivoluzione bolscevica. Gli artisti partecipano alla fondazione della società socialista con fiducia, calore e abnegazione. Fino a che il processo rivoluzionario rimane aperto e attivo, l’arte e la rivoluzione sono tutt’uno. Alla morte di Lenin, avvenuta del ’24, e con la salita al potere di Stalin il processo si arresta e la rivoluzione diventa un incubo inumano: l’arte smette di essere veicolo di liberazione e sovvertimento e, come qualsiasi altra attività, è ricondotta sotto lo stretto, soffocante controllo degli apparati statali13.

Ma all’inizio – sin dai giorni dell’ottobre del 1917, con il ritorno in patria di Lenin dall’esilio svizzero e la violenta presa di potere dei bolscevichi – Malevic, Rodchenco e compagni operano per la creazione di una società capace di liberare i lavoratori dall’alienazione, dall’oppressione e dallo sfruttamento. La loro attività spazia in ogni campo, della pittura all’architettura, dalla grafica al cinema, dalle arti applicate alla propaganda: un universo di segni moderni, dinamici, perentori destinati a formare il nuovo alfabeto delle masse proletarie. Con un livello di interazione tra elementi grafici e immagine fotografica radicalmente innovativi.

L’universo semantico costruttivista, simile per certi versi a quello del Bauhaus (rigore, nitore, pulizia formale, riduzione della tavolozza a elementi primari) è però più spinto, dinamico, impaziente, proteso verso il futuro. Questi artisti hanno il privilegio, la responsabilità, e per alcuni la colpa, di aver dato forma e voce a una delle esperienze politiche più radicali della storia: per loro la “rivoluzione” non è un progetto, come poteva essere per gli insegnati del Bauhaus, o un desiderio furente come sarà per i dadaisti, ma una viva realtà, operante nel presente e lanciata nella storia.

Il razionalismo italiano degli anni Trenta

Nell’Italia fascista degli anni Trenta, oltre alle esperienze visive del secondo Futurismo, si sviluppa una straordinaria stagione razionalista che ha molti punti di contatto con la scuola tedesca e olandese. Rigore nella progettazione, rifiuto del naturalismo, precisione delle forme sono ancora una volta gli elementi che guidano il gruppo degli artisti astrattisti italiani [Mario Radice, Manlio Rho, Mauro Reggiani, Atanasio Soldati] su cui spicca la personalità di Osvaldo Licini. Alle esperienze che si compiono nell’arte figurativa si accostano quelle, decisamente più rilevanti, dell’architettura: Adalberto Libera, Giuseppe Terragni e Giò Pontidivengono i principali esponenti del modernismo italiano. Non a caso, nel 1928 nascono due riviste di architettura e design – Domus e Casabella – destinate a diventare elementi chiave del dibattito culturale dell’epoca. Sui risultati teorici e sulle realizzazioni del razionalismo degli anni Trenta fiorirà nel dopoguerra la cultura del design italiano.

Il movimento razionalista italiano, seppure nelle difficoltà e nelle limitazioni imposte dal regime fascista e di un clima culturale che nel corso degli anni Trenta diverrà sempre più chiuso e autarchico, approderà a posizioni all’avanguardia affini a quelle che si andavano elaborando in Germania e nel nord Europa. Nel 1933 aprirà lo Studio Boggeri, la prima agenzia di comunicazione italiana che diventerà l’interprete della nascente industria manifatturiera e meccanica del paese. Con lo studio Boggeri si afferma anche una aggiornata sensibilità nella progettazione grafica interpretata nei suoi elementi più all’avanguardia dalla rivista Campo Grafico. Fondata sempre nel 1933, Campo Grafico assimila e rielabora in incessanti sperimentazioni gli elementi del modernismo europeo.

[N]

1 Vedi Einstein, Scultura negra, anche Tzara scriverà un testo fondamentale sull’argomento, in generale prende avvio uno stile etnografico da parte degli artisti che, in forme diverse, arriva fine a noi.

2 De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento. p. 70.

3 È un passo estratto dal mio manuale scolastico di storia. Le vicende della Prima guerra mondiale, come per altro quelle della seconda, seppure rilevantissime ai fini del discorso, sono talmente vaste da non poter essere che evocate. Rimando a Peppino Ortoleva, Marco Revelli, Storia dell’età contemporanea. Dalla Seconda rivoluzione industriale ai nostri giorni. Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 1993.

4 De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento. p. 121.

5 Il corpus dei Manifesti futuristi raccoglie le scorribande di questo gruppo di giovani in tutte le dimensioni della creatività e della socialità. Sono testi molto belli e mostrano come, molto spesso, la pratica futurista non sia stata all’altezza della teoria. Vedi Guido Davico Bonino (a cura di), Manifesti Futuristi. Rizzoli, 2009.

6 Le esperienze più interessanti della stagione futurista si possono trovare probabilmente negli àmbiti artistici meno noti al pubblico, se non più marginali. Pittura e scultura (cioè le arti nobili e in fondo più conosciute) rimangono saldamente ancorate a una logica simbolista, in musica Russolo compie invece quel salto in un territorio sonoro completamente inedito e inesplorato. Russolo – forse il musicista meno eseguito del secolo, malgrado l’innegabile importanza – comprende e traduce in musica il paesaggio sonoro moderno, quel “rumore” a cui dovrà convivere ogni cittadino occidentale. Vedi Stefano Pivato, Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro del Novecento. Il Mulino, Bologna, 2011.

7 Daniele Baroni, Maurizio Vitta, Storia del design grafico. Longanesi, Milano, 2003. p. 77

8 Vedi Gabriella Belli, Beatrice Avanzi (a cura di), Depero pubblicitario. Dall’auto-réclame all’architettura pubblicitaria. Skira, Milano, 2007.

9 Vedi, Walter Gropius, La nuova architettura e il Bauhaus. Traduzione di Alessandro Salvini. Abscondita, Milano, 2014.

10 I libri di Kandinsky come Lo Spirituale nell’arte o Punto, linea, superficie sono ancora in stampa e sono, ancora, letti: la fiducia dell’artista sulle possibilità di costruire un vocabolario razionale per esprimere le emozioni sembra essere tutt’oggi condivisa.

11 Vedi Maurizio Vitta, Il rifiuto degli dèi. Teoria delle belle arti industriali. Einaudi, Torino, 2012.

12 Non a caso, Elias Canetti comincia a scrivere il suo celebre Massa e potere nel 1922. Il libro sarà pubblicato nel 1960 dopo quasi quarant’anni di elaborazione.

13 È il destino comune a ogni esperienza avanguardista dell’Europa prebellica, come il Futurismo e il Bauhaus, il Costruttivismo viene soffocato e spento. Gli stati totalitari investono moltissimo in arte facendone il cardine della loro macchina propagandistica. È un aspetto mai considerato nei libri di storia dell’arte che sopprimono e censurano l’enorme quantità di arte prodotta durante il periodo fascista o nazista o stalinista bollandola come mera propaganda, non sempre è così. Un ampio studio sull’argomento si trova in Igor Golomstock, Arte Totalitaria. Nell’URSS di Stalin, nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini e nella Cina di Mao. Traduzione di Alessandro Giorgetta. Leonardo, Milano, 1990. Per un repertorio iconografico dello stesso periodo vedi Steven Keller, Iron fist. Branding the 20th-century totalitarian state. Phaidon, London, 2008.

Lascia un commento