Pensiero selvaggio

Benjamin con suoi «passages», Warburg con l’atlante Mnémosyne, Bataille segretario generale di “Documents”, Schwitters all’opera nel suo Mezbau hanno tutti lavorato adottando una erudita quanto immaginativa pratica di montaggio: ogni immagine, ogni oggetto, ogni parola chiede e genera una infinita possibilità di correlazioni, incollaggi, scoperte.

Un “modus” rizomatico e imprevedibile, una fluidità che ammette anche una cospicua dose di rischio perché costringe ad agire sui materiali senza un progetto, senza uno schema preventivo, consegnandosi all’alea del caso e alla possibilità dell’inconcludenza, del fallimento.

Proprio come fa il bricoleur, colui che costruisce arrangiandosi con quello che trova, senza perseguire un progetto definito in partenza. Il bricoleur è una figura omologa a quella del montatore perché agisce con ciò che ha a disposizione, lavorando con quello che il caso ha voluto assegnargli, mettendo in risonanza oggetti e pensieri diversi, decostruendo il senso che è stato progettato per loro e immaginando una nuova forma, un nuovo destino.

La cultura occidentale sintonizzata sulle frequenze della modernità, in cui regna quel principio di ottimizzazione che discende dalla ragione produttiva in cui ogni azione è guidata da un calcolo, ha guardato poco e con sospetto a queste pratiche in auge invece nelle società primitive. Il primo ad accorgersi della fondamentale peculiarità dei modelli concettuali e operativi che stanno alla base del fare tradizionale (extra-occidentale o pre-moderno e, ora, post-moderno) è stato Claude Lévi-Strauss: tra il 1950 e il 1960 l’antropologo francese ha lungamente studiato le società pre-moderne, in cui la logica del progetto è sostituita dalla pratica del bricolage.

Nel libro “Il pensiero selvaggio” (1962) Lévi-Strauss distingue il pensiero occidentale moderno, improntato alla logica astratta e scientifica, dalle pratiche di conoscenza delle società primitive guidate invece da una scienza del concreto e precisa che «sopravvive fra noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza che preferiamo chiamare primaria anziché primitiva: questa forma è di solito designata col termine bricolage». E continua: «Oggi per bricoleur s’intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo di mestiere. […] Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè un insieme via via finito di arnesi e materiali, per altro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto in particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni o distruzioni precedenti»1.

Il bricoleur è insomma un montatore che costruisce il proprio discorso con i materiali e gli arnesi di cui dispone, accettando la complessità di questo stato di cose; il bricoleur non lavora ottimizzando i suoi sforzi, e nemmeno massimizzando i suoi profitti; il suo processo creativo è sempre aperto e permane in uno stato di fluidità che è insieme incertezza, caos e ricchezza potenziale.

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1 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio. Traduzione di Paolo Caruso. Il Saggiatore, Milano, 2003. pp. 29-30

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